Lo spettatore contemporaneo cerca un’interazione con l’audiovisivo che si sviluppi soprattutto a livello viscerale, piuttosto che a livello di comprensione di significati interni alla rappresentazione. “Percepire” emozioni dettate non solo dal puro piacere dello sguardo, ma anche da una plurisensorialità più marcata. Questo voler partecipare attivamente alle attività spettacolari si allarga nei vari settori dell’intrattenimento. Ne è prova il grande circuito delle attrazioni popolari, nate alla fine del diciannovesimo secolo e oggi commercializzate e tecnologizzate, le cui fondamentali caratteristiche estetiche si piegano verso modalità sensitive e di spettacolarità diretta. I parchi di divertimento, con giganti apparati meccanici, illusioni ottiche e dal vivo, suscitano frenesie nell’ uomo molto forti, Una spettacolarizzazione così attiva, alla fine del 1800 si estendeva anche alle fantasmagorie, al teatro di magia e a quel nuovo prodotto che avvierà nuovi procedimenti nell’ immaginario collettivo: il cinema.
E’ utile aprire una breve parentesi sull’apparato cinematografico e filmico per capire i procedimenti che porteranno il videoclip a differenziarsi, come forma breve, nel tipo di percezione spettatoriale, pur essendo discendente di quel tipo di visione che ha come genitore il cinematografo.
Il cinema classico si basava sul racconto di eventi concatenati logicamente e unificati da una tematica coerente. Secondo l’analisi dei formalisti russi, il racconto può essere distinto in fabula1 e sjuzet2 e prevedeva dunque un susseguirsi logico e coerente degli avvenimenti, in modo da far immergere lo spettatore nella storia e dargli la possibilità di identificarsi sia con l’atto del vedere, sia con i personaggi principali. Christian Metz, infatti, nel suo “Cinema e psicanalisi” fonda sull’equivalenza tra lo spettatore e il sognatore la sua teoria: l’esperienza filmica sarebbe molto simile al lavoro del sogno. Più di ogni altro mezzo il cinema è in grado di riprodurre effettivamente o, per lo meno, di avvicinarsi alla struttura e alla logica dei sogni e dell’inconscio. Questo avviene perchè la fruizione del film innesca contemporaneamente una proiezione, in cui impulsi specifici, desideri e aspetti del sé si immaginano collocati in un oggetto esterno al sé, e un’identificazione , in cui c’è un’estensione dell’identità in un’altra,un prendere in prestito l’identità di un altro. Lo spettatore della teoria psicoanalitica del cinema è quindi il meccanismo centrale di tutta l’operazione filmica, la cui affinità con il sogno è segnalata dal fatto che entrambi sono storie raccontate in immagini. Vi sono alcune condizioni che rendono la situazione della ricezione cinematografica simile al sogno: siamo in una sala buia, la nostra attività motoria è ridotta e a causa di ciò lo spettatore cinematografico entra in un regime di credenza. Questo effetto produce nello spettatore la sensazione di essere proprio lui a produrre la finzione filmica, di “sognare” le immagini e le situazioni che appaiono sullo schermo.
Il film sembra essere narrato dallo spettatore stesso, che diventa, nella sua immaginazione, la fonte discorsiva. L’enunciazione è allacciata al sognare, ovvero a un’operazione fantasmatica, inconscia, e non a un processo cognitivo. Quindi affinchè lo spettatore abbia l’impressione che è la sua storia a essere raccontata, è necessario che la fiction sullo schermo appaia come se non provenisse da alcuna fonte. La struttura del campo/controcampo consente allo spettatore di diventare una sorta di mediatore invisibile tra un gioco di sguardi, un partecipante fittizio nella fantasia del film. Nel passare dell’inquadratura di un personaggio che guarda, a quella di un altro personaggio guardato, la soggettività dello spettatore viene legata al testo. La sutura diventa, quindi, il processo in base al quale il soggetto viene cucito nella catena del discorso che definisce.
Di conseguenza nel cinema classico solo occultando le tracce del suo funzionamento l’apparato cinematografico riesce a creare questi stati mentali nello spettatore.
Per questo il modello rappresentativo istituzionale cinematografico era basato su forme ben definite di narratività, le quali davano al racconto uno sviluppo unitario, seppure il sjuzet presupponga un’organizzazione deformata, artistica, della struttura della fabula. La visione naturale che il cinema classico voleva ottenere era resa possibile dal “montaggio invisibile” teorizzato da Bazin, grazie al quale lo spettatore poteva partecipare alla storia e al susseguirsi di immagini come se fosse parte della realtà. Alcune regole normalizzavano questo tipo di percezione: il posizionamento della macchina da presa secondo certe angolazioni1, la cancellazione dello sguardo in macchina, che conferma la funzione dello spettatore come voyeur, una costruzione a focalizzazione zero2, dove il punto di vista di nessun personaggio è privilegiato.
Lo stesso Metz poi aveva individuato nella sua teoria de “la grande sintagmatica”, alcune tipologie dei diversi modi con cui il montaggio ordina lo spazio e il tempo nel film narrativo. Egli isola le principali figure sintagmatiche1 che determinano la struttura complessiva della narrazione e che danno alla diegesi una forma unitaria sebbene intrisa di connotati artistici ed interpretativi2.
Scopo principale del cinema classico, e dunque del modo di vedere del modello rappresentativo istituzionale, era la naturalezza dell’atto stesso della partecipazione all’evento filmico, per dare maggiore importanza alla storia, al suo sviluppo cronologico e significativo.
Con il videoclip dell’era postmoderna, invece, possiamo notare tutto il contrario.
La storia non ha di per sé un valore indispensabile nella rappresentazione videomusicale. Importanza maggiore ne ha il livello di esibizione di rapide immagini a tempo con la musica, il discorso sinergico che acquisiscono le varie forme d’arte in esso rappresentate, la capacità di “ipnotizzare” lo spettatore e ammaliarlo per ricordare la forza simbolica del performer a cui fa riferimento.
Come ci fa notare Manovich3, il video musicale nasce nel momento in cui le apparecchiature per creare effetti video stavano entrando negli studios cinematografici. Dunque, seppure abbiano spesso degli elementi narrativi, non sono mai delle narrazioni lineari dall’inizio alla fine, si affidano a delle immagini di tipo cinematografico, ma le modificano ben oltre la norma del realismo cinematografico tradizionale.
Il videoclip si avvalora di nuove forme linguistiche che non badano più alle regole classiche, ma sembrano infrangerle creando un discorso affascinante, un impatto visivo di altro genere. Il montaggio non è più invisibile, ma si mostra senza inibizioni con stacchi netti, violenti, repentini o morbidi e dilatati, secondo lo scioglimento del tessuto musicale.
Nuovi sintagmi appartengono al linguaggio contemporaneo, che mostra una certa familiarità con lo sviluppo dei relativi media.
Selene Di Domenicantonio
1 una serie di eventi in relazione logica e cronologica. In termini più generali essa è il materiale grezzo o la struttura di base della storia antecedente alla sua organizzazione in forma artistica
2 organizzazione in forma artistica, o deformazione dell’ordine causale-cronologico degli eventi. Il sjuzet è spesso tradotto come intreccio; in esso l’ossatura di base degli eventi della fabula è rimodellata in una forma esteticamente soddisfacente attraverso l’impiego di dispositivi artistici
1 più precisamente, l’angolo di ripresa non deve superare i 30°.
2 il termine “Focalizzazione” fu introdotto in semiotica cinematografica da Genette.
1 Sintagma è la dimensione orizzontale del discorso, ossia quella particolare sequenza degli elementi che lo rendono un intero dotato di senso. Paradigma è un insieme virtuale o verticale di unità che hanno in comune il fatto di essere legate da relazioni di somiglianza e contrasto, ad esempio l’alfabeto.
2 Possiamo citare come esempi di tipologie sintagmatiche il sintagma parallelo: due motivi che si alternano senza una chiara relazione temporale o spaziale, come ad esempio ricco-povero, città-campagna.
3 Lev Manovich, “Il linguaggio dei nuovi media” edizioni Olivares, Milano 2002